RASSEGNA STAMPA

LA REPUBBLICA - Prove false e omertà duecento “picchiatori” restano senza nome

Genova, 10 novembre 2008

Prove false e omertà duecento “picchiatori” restano senza nome

MASSIMO CALANDRI

Alla vigilia della sentenza la procura del capoluogo ligure ha svelato un altro “mistero”.
Un’altra vergogna, per dirla con le parole dei magistrati. Il mistero dell’agente Coda di Cavallo, picchiatore impunito: riconosciuto solo dopo sette lunghissimi anni, nonostante l’omertà di colleghi e superiori. Non è purtroppo l’ultimo degli enigmi di questa scomoda storia, ma ormai non c’è più tempo per fare chiarezza. La prima sezione del tribunale di Genova, presieduta da Gabrio Barone, entrerà in camera di consiglio giovedì mattina. Qualche ora dopo sapremo.
Per i protagonisti della sciagurata irruzione nella scuola Diaz, durante il G8 del luglio 2001, i pubblici ministeri hanno chiesto 109 anni e 9 mesi complessivi di reclusione. Gli imputati sono 29, tra agenti e super-poliziotti. Responsabili a diverso titolo del massacro ingiustificato e ingiustificabile di 93 no-global, arrestati illegalmente con un verbale farcito di prove false.
Sotto accusa ci sono anche e soprattutto i vertici del ministero dell’Interno. Prima complici “di una della pagine più nere nella storia della Polizia di Stato”. Poi, sempre secondo i pm Francesco Cardona Albini ed Enrico Zucca, ispiratori e registi della “sistematica corruzione per una nobile causa”. Menzogne e versioni concordate, che tra l’altro sono costate un procedimento parallelo a Gianni De Gennaro, ex capo della polizia accusato di aver istigato a mentire il vecchio questore di Genova, Francesco Colucci.
Si chiude un processo inquieto ed inquietante che l’altro giorno stava finendo in rissa, in un paradossale ribaltamento dei ruoli: con gli avvocati difensori – le cui parcelle, in caso di assoluzione, ammonteranno in tutto a circa dieci milioni di euro: pagherà il ministero - ad aggredire verbalmente i pm, accusandoli di aver violato sistematicamente il codice. E quelli a denunciare le “minacce” subìte. Si chiude un processo che ha sfiancato la procura, costretta a fare i conti con il catenaccio degli imputati. Nel corso del dibattimento quasi nessuno degli accusati si è presentato in aula per spiegare, chiarire. Nessuno dei Grandi Accusati. Non Francesco Gratteri, ora ai vertici dell’Antiterrorismo. Non Gilberto Cadarozzi, protagonista della cattura di Bernardo Provenzano. Chi ha scelto di parlare lo ha fatto solo per offrire “dichiarazioni spontanee”, senza contraddittorio.
Come Giovanni Luperi, attuale direttore dell’Aisi, l’ex Sisde. Che davanti ai giudici ha ammesso: “La Diaz è stata una pagina orribile”, ma incalzato dai pm ha detto che quella notte era stanco, che non partecipò attivamente all’organizzazione dell’intervento perché più che altro pensava a dove portare a cena i colleghi. Se l’era presa con “quel vigliacco che ha portato le bottiglie incendiarie nella scuola”, e ricordava di aver passato il sacchetto con le molotov – quando ancora erano nel cortile - ad una funzionaria. Che a sua volta le aveva passate ad un misterioso ispettore della Digos di Napoli.
Che le aveva portate nell’istituto. E che naturalmente è scomparso. Una versione tra Ionesco e De Filippo, come ha ironizzato Alfredo Biondi, avvocato di Pietro Troiani, il vice-questore bollato come l’ “uomo delle molotov”. Il fotogramma-simbolo di questa storia è stato estrapolato da un filmato depositato nel corso del dibattimento il mese scorso. In lontananza, sulla sinistra, si vede il fantomatico ispettore che entra dalla porta laterale della scuola, con il sacchetto azzurro in mano. La regina delle prove false.
Falsa come la successiva collaborazione nelle indagini da parte della stessa polizia, sostiene la procura. Che cita l’ultimo emblematico caso. Coda di Cavallo, appunto. E’ un agente in borghese, viene filmato mentre ai piani superiori della Diaz prende a manganellate alcuni ragazzi inermi. Il volto è inquadrato in primo piano, e poi ci sono i capelli, raccolti in quella inconfondibile coda di cavallo. I magistrati chiedono ai poliziotti di dare un nome al loro collega. L’immagine per sette anni e mezzo fa il giro di tutte le questure d’Italia.
Nessuno risponde. E però, nei giorni scorsi arriva il colpo di scena. Sono gli stessi magistrati a dargli un nome, perché l’agente Coda di Cavallo, con i capelli debitamente tagliati, ha l’arroganza di prendere posto tra il pubblico nel corso di alcune udienze. Di chi si tratta? Di un sottufficiale della Digos di Genova. L’ufficio incaricato di identificare i protagonisti della sciagurata irruzione. A proposito: la maggior parte di loro, oltre duecento, resta senza nome. Come senza nome sono i poliziotti che all’esterno dell’istituto sfondarono a calci i polmoni ad un giornalista inglese, Mark Cowell, uno dei 93 che poi risultò “ufficialmente” essere stato catturato nella scuola. Il fascicolo per tentato omicidio nei suoi confronti resta a carico di ignoti. Ed ignota è ancora la quattordicesima firma nel verbale d’arresto dei 93 no-global: un documento pieno di bugie che è costato il processo a 13 dei 29, ma non a quello che vigliaccamente – non essendo possibile decifrare la sua scrittura – ha preferito rimanere nel buio, un altro mistero di una notte vergognosa. La notte più buia della polizia che i pm riassumono amaramente: “Pensavano di fare il loro dovere. Ma hanno agito secondo una logica perversa.
Fiduciosi che la loro illegalità sarebbe comunque stata tollerata, in tutte le sedi istituzionali”.